L’ultimo fotoreporter spenga la luce (di Michele Smargiassi)
Da “FOTOCRAZIA”, il blog di Michele Smargiassi, del 4 maggio 2017
Io ho sperato fino all’ultimo, e lo dico senza ironia, che Souvid Datta fosse un emulo di Joan Fontcuberta.
Che si facesse vivo dopo qualche giorno di tempesta e con una risata beffarda dicesse: “Ah finalmente ve ne siete accorti! Vi ho proprio fregati!”.
Che dicesse che la sua era una beffa premeditata, alla Bruno Vidoni (chi non sa chi è, lo scopra…), una provocazione d’artista per smascherare la vulnerabilità e la credulità del sistema del fotogiornalismo che ormai si beve di tutto e metabolizza tutto, a cui basta una foto e una firma per non farsi nessun’altra domanda.
Ma alla fine, invece, poche ore fa, Datta ha sinceramente ammesso il suo clamoroso plagio in una dolorosa intervista a Oliver Laurent di Time. Riassumo e traduco per chi si è perso tutta la storia.
Un fotografo di Bangalore vede online una foto di Datta, si accorge che qualcosa non torna e lo scrive a Petapixel.
Cosa non torna? In una delle fotografie del servizio di Datta The Shadows of Kolkhata, datato 2013, sui bordelli di Calcutta, pubblicata su Huffington Post ma meglio spiegata in un altro sito (da cui ora sembra essere scomparsa, ma Petapixel ha lo screenshot), si vedono alcune figure.
La didascalia del fotografo ce ne identifica due, una come una giovanissima prostituta, Radhika, che si guarda allo specchio, e sullo sfondo una più “esperta”, Asma, che si sta vestendo; e ci racconta del profondo legame fra loro.
Ma Asma deve averne fatta della strada, e comunque regge bene il peso degli anni, visto che appare, stessi abiti stessa faccia stessa posa, solo ribaltata specularmente, in una fotografia di travestiti che si vestono, firmata Mary Ellen Mark, dai suoi celebri reportage sui bordelli di Falkland Road, Bombay (distanza duemila chilometri), datata 1978 (quasi quarant’anni fa).
Petapixel chiede spiegazioni a Datta, e questi per tutta risposta chiude tutti i suoi account (mentre scriviamo, è ancora così). Il caso esplode. Su Facebook altre presunte vittime di plagio si fanno vive.
Lens Culture ha rimosso ogni riferimento a Datta dal suo sito “per ragioni etiche”. La Alexia Foundation ha aperto un’indagine sul grant che gli ha assegnato. Getty e Pulitzer seguiranno? Per lui rischia di essere davvero una catastrofe.
Per Datta soltanto? O per il fotogiornalismo tutto quanto?
Possiamo davvero continuare a indignarci per ogni singola notizia di questo genere (ormai è uno stillicidio di clonazioni, manipolazioni, fotoscioppismi estremi) senza tirare mai le fila del problema?
Commentando a caldo sui social la denuncia di Petapixel, ho scritto che mi aspettavo una risposta forte dei fotoreporter seri. Ce ne sono ancora tanti. Non ne ho trovato neanche uno, in effetti, che giustifichi il plagio.
Ma pochi provano a tirare quel filo che porta da un comportamento individuale a una tendenza generale. E alcuni, se proprio lo fanno, propongono le solite attenuanti contestuali. La crisi del mercato del reportage e il crollo del venduto che costringono i fotografi a dopare le proprie immagini per bucare i media e vincere i premi eccetera.
No, ragazzi, non ci siamo.
Non possiamo trattare un professionista dell’immagine come un bambino povero che ruba una mela. Per quanto precario sia, chi fa questo mestiere deve, rpt deve assumersi delle responsabilità, e deve, rpt deve, avere abbastanza intelligenza per capire che violare il patto di lealtà con il lettore proietta un danno di credibilità gigantesco su tutta la professione, e quindi è come tagliare il ramo dell’albero su cui sta seduto.
Datta, nativo di Bombay ma cresciuto fin da bambino a Londra, è un professionista. Si definisce “multimedia journalist & film maker, specialising in features on human rights, conflict and the environment”. Vende reportage a grandi testate, Time, il Guardian, il New York Times.
Siamo, mi pare, fuori dalla lotta per la sopravvivenza dell’esordiente, piuttosto su un livello, forse ancora più feroce, di lotta per l’affermazione tra professionisti già riconosciuti. In un mercato, certo, privo di scrupoli. Dopato. Che premia il doping. Ma dove tutti sono attori consapevoli e il vittimismo è fuori luogo.
Del resto, Datta prova solo debolmente ad atteggiarsi a vittima del sistema, anzi ammette: “nessuno mi ha costretto”, almeno questo. Ma quel che racconta è sconcertante.
Nella sua intervista a Time si assume tutta la responsabilità per avere “stupidamente alterato” le sue foto. Spiega che Asma esisteva davvero, ma non volle farsi fotografare. Che frustrazione. Ma la tecnologia passa sopra questi dettagli umani.
Infatti c’era in una vecchia foto di Mary Ellen Mark, gigantessa del reportage, una figura che le assomigliava tanto… Così, un po’ per provare “come sarebbe stato”… Poi “l’errore è stato caricare la foto sul mio blog”… E anche lasciarla circolare per quattro anni, aggiungerei. “Ma ormai era troppo tardi”.
“Ho mentito”, riconosce Datta in una serie di risposte contrite, invocando la sua incoscienza giovanile dell’etica del fotoreporter, mestiere che evidentemente faceva a sua insaputa.
Poi però aggiunge (con il senno di oggi): “Volevo vedere come sarebbe stata la mia foto se avessi convinto Asma a partecipare”, e ancora: “mi sembrava una specie di risultato artistico”.
Perfetto! C’è davvero un riassunto di quel che sta accadendo di folle all’idea di fotogiornalismo oggi. L’idea che una fotografia non sia il frutto di quel che sei riuscito a vedere e a fotografare, ma da quel che avresti voluto vedere e fotografare. L’idea che il “risultato artistico” dispensi una fotografia dall’essere quel che a tutti sembra essere. Manca solo la parolina chiave: storytelling…
Come si vede, comunque, alla fine la legge del Web non perdona e gli altarini si vedono. E quando si son visti, non ce n’è più per nessuno. Un fotoscippo del genere non fa male solo a Datta. E neppure solo ai suoi colleghi. Fa molto, molto di più.
La tiepida reazione che mi pare questo caso susciti tra i colleghi (ci sono altri altarini in giro?), disposti a condannare anche ferocemente il singolo “colpevole” e mollarlo al suo destino, ma non a farne una questione di fondo, non mi rincuora.
Soprattutto se finisce per addossare le colpe a uno per evitare di vedere la china preoccupante di un sistema.
Sia ben chiaro che un episodio del genere non ha altro risultato che incidere ancora di più nel marmo dell’opinione pubblica l’idea che non esistano altro che fotografie inventate.
Che la rottura del patto fotogiornalistico (ti farò vedere, tradotto in immagine, come l’ho visto io, un pezzo di mondo che però ho davvero visto) non sia una truffa, ma una evoluzione consapevole e inevitabile di quel patto. Magari coprendo il tutto con un fragrante contorno di teorie scettico-postmoderniste sulla realtà che non esiste, sulla verità come costruzione artificiale, sul relativismo del concetto di onestà deontologica eccetera.
Che in fondo hanno ragione Trump e i debunker estremi quando sostengono, uniti nella lotta, che non esiste giornalismo affidabile.
Che nel reportage, come se fosse una foto di studio, alla fine tutto è possibile e tutto il possibile è legittimo. Compreso, ovviamente, non far sapere nulla al lettore sul come è stata prodotta la fotografia che sta guardando.
Che il valore della testimonianza professionale giornalistica onesta è ormai ridotto a zero, accessorio inutile e non richiesto, che per i lettori non conta se un racconto della realtà è fondato ma solo se è “bello” ed “emozionante”.
E così i reporter si adeguano e “pettinano“, secondo la metafora suggerita da un amico su Facebook, le loro fotografie, non solo secondo l’hairstyling che va al momento, ma con abbondante uso di extension e riportini.
Avrebbero del tutto torto a pensarla così, i lettori?
Se la prevalenza del glamour photojournalism da tavolo di parrucchiere alla fine darà ai lettori queste impressioni sul vostro lavoro, cari amicissimi, indispensabili fotoreporter, e se a tanti di voi va bene così, cominciate a cambiare ragione sociale, fate ristampare i biglietti da visita, scriveteci “graphic artist“, preparatevi a vendere le vostre foto solo in quei fashion shop che sono le gallerie d’arte, dove qualsiasi manipolazione e perfino l’appropriazione di lavori altrui sono culturalmente legittimate.
L’ultimo fotoreporter a uscire spenga la luce e chiuda la porta.
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